Astenersi dai giudizi, soprattutto dai giudizi moralistici, ed evitare interventi intrusivi e direttivi, è la prima regola essenziale per rispettare il paziente e la sua autenticità.
La responsabilità del terapeuta è un’altro aspetto importante del lavoro. Questa responsabilità non è tanto nei confronti delle regole o dei dettami della metodologia che si utilizza, ma nei confronti del benessere del paziente. Il paziente si rivolge allo psicologo non per essere analizzato, ma per essere aiutato ad affrontare e superare i propri conflitti e per vivere più serenamente. Con ciò non significa evitare il dolore psicologico, anzi talvolta è utile non sfuggire dal dolore, ma poterlo affrontare e tollerare. Il tutto però con i tempi, i modi e le possibilità del paziente stesso.
In questo lavoro a due, paziente e terapeuta si mettono in gioco per quello che sono: il paziente (non potrebbe essere altrimenti) mettendo in atto anche quei meccanismi patologici, disfunzionali, che utilizza in generale nelle relazioni con gli altri, e che vuole cercare di curare; il terapeuta dovrà rispondere in modo adeguato, relazionandosi cioè con il paziente, in modo da aiutare quest’ultimo a scoprire l’incongruenza di questi suoi meccanismi di relazione.
Anche se la legge italiana non prevede la obbligatorietà, per i futuri psicologi, di sottoporsi ad un lavoro personale, il Dott. Molho ritiene opportuno che il terapeuta, prima di svolgere questo lavoro, si sottoponga lui stesso, come paziente, ad un trattamento psicoanalitico personale che dovrà essere più profondo di quello normalmente riservato ai pazienti. Questo non solo perché, come si dice, si può capire l’altro solo dopo avere capito fino in fondo se stessi, ma anche per evitare che, per dirla con le parole di Bion (1970): “..il terapeuta sia inquinato dai suoi rumori interni, che a volte fanno così troppo chiasso da impedirgli di ascoltare davvero l‘altra persona.”
Dal punto di vista della metodologia, il lavoro che il Dott. Molho svolge con il soggetto può essere di tre tipi: consultazione, inquadramento psicodiagnostico e psicoterapia, a seconda naturalmente della richiesta del soggetto e della situazione che si presenta.
L’inquadramento psicodiagnostico precede sempre una psicoterapia e di solito necessita di 3 o 4 sedute.
Parliamo di una diagnosi che non si sofferma sul problema manifesto, ma che è in grado di cogliere i meccanismi interiori, nella dimensione soggettiva del paziente.
La consultazione psicologica, vine effettuata sulla base della necessità, per il paziente di cogliere il significato di un conflitto e di una problematica impossibile da risolvere con gli strumenti di lettura abituali. Pertanto il problema che il paziente pone può essere medglio affrontato nel momento in cui possono essere colte le cause sottostanti. In questo modo il paziente ha maggiori strumenti per poterlo affrontare.
La diagnosi psicologica permette di delineare un profilo dinamico che metta in risalto la personalità, le principali aree conflittuali, i meccanismi di difesa, il significato di eventuali sintomi, la capacità dell’Io di sopportare le frustrazioni ecc..
Non ci interessa l’inquadramento tradizionale, tipico della medicina, dove si mette un’”etichetta diagnostica” che di per se non spiega nulla, ma cerchiamo di delineare una situazione interna che, come un sistema di “pesi e contrappesi”, definisce un equilibrio che è il migliore possibile (in quel momento) per il paziente. Si può aggiungere che un inquadramento diagnostico è di per se anche “terapeutico”, perché consente all’individuo di cogliere il significato dei suoi conflitti e dei suoi sintomi e quindi di rielaborarli.
Grazie a questa valutazione iniziale è possibile informare il paziente se può giovarsi della psicoterapia, che cosa deve aspettarsi da essa, o se è meglio che si indirizzi verso altri tipi di trattamenti.
Principale strumento dell’intervento psicoterapeutico, è naturalmente il colloquio.
Il colloquio consente di entrare nella prospettiva emotiva dell’altro, attraverso un ascolto sensibile, un coinvolgimento empatico, che permette di cogliere la pienezza affettiva dei sentimenti del paziente.
“L’ascolto terapeutico” si definisce nella capacità di oscillare tra questo momento di sintonizzazione con il paziente, per poi alternarlo con una maggiore riflessione concettuale.
Questa modalità relazionale e di ascolto permette di raggiungere una coesione e una partecipazione, fra paziente e terapeuta, che trasforma un semplice colloquio in un’esperienza viva, emotivamente significativa, di coesione e partecipazione.
Perché si usa l’approccio psicoanalitico?
Perché è quello che ha rivoluzionato tutto il sapere psicologico; è una disciplina che basandosi sull’importanza delle esperienze infantili, riesce a collegare il presente con il passato, a integrare fantasie e realtà esterne, e a spiegare per esempio il significato della tendenza a ripetere esperienze dolorose; infine è quello che si pone le mete più ambiziose in termini di efficacia e stabilità del cambiamento.
In due parole potremmo dire che lo scopo di una psicoanalisi è quello di mettere in luce l’esperienza emotiva del paziente. Lo scopo è quello di scoprire ciò che sfugge alla consapevolezza e che non permette al soggetto di vivere pienamente e con serenità la sua vita. Questo “dare forma” a ciò che il paziente vive ha una molteplicità di implicazioni. In primo luogo, l’osservare un fenomeno altera la natura stessa di ciò che osserviamo. Ogden, , uno dei importanti autori psicoanalitici contemporanei, usa queste parole: (2008), “..Nell’ interpretare l’analista simbolizza verbalmente ciò che intuisce essere l’esperienza inconscia del paziente e, nel fare questo, altera ciò che è vero e contribuisce alla creazione di un’esperienza potenzialmente nuova con al quale la coppia analitica può fare lavoro psicologico.”