In questo intervento vorremo portare l’esperienza effettuata presso un servizio pubblico con i genitori dei ragazzi con disabilità di vario tipo (disturbo dello spettro autistico, deficit cognitivo ecc.)
Siamo ben consapevoli delle difficoltà che ogni genitore incontra nella relazione con i propri figli, imparare a fare i genitori è certamente molto complesso ancora di più quando si parla di soggetti disabili riteniamo che un intervento di aiuto, nei confronti dei genitori sia imprescindibile.
Lavorando con la disabilità ci rendiamo conto che tutti i conflitti presenti nelle normali relazioni genitori, figli, (pensiamo solo al bisogno di emancipazione che inizia nella fase adolescenziale), vengono inevitabilmente accentuati e problematizzati dalla condizione di disabilità.
Riamiamo stupiti nel constatare come le emozioni dei genitori interferiscono in modo così accentuato nella visione dei problemi del proprio figlio, da determinare spesso una sopravvalutazione o una sottovalutazione delle reali problematiche di quest’ultimo fino, nei casi più estremi, a processi di vera e propria negazione dello stato di disabilità anche quando questa è molto marcata.
In che modo quindi aiutare i genitori nel rapporto con i loro figli?
Riteniamo che un intervento pedagogico, in cui per esempio si spiega al genitore come comportarsi abbia dei limiti. La complessità delle relazioni con i propri figli è tale da sfuggire alla conoscenza tecnica, nozionistica, ma è necessaria una formazione alla dimensione relazionale.
Noi stessi psicologi, educatori, ecc.., abbiamo competenze tecnico nozionistiche, ma questo non fa di noi dei genitori migliori. In una relazione sbilanciata, come quella tra un figlio ed un genitore, quest’ultimo si trova ad avere a che fare con un insieme di aspetti affettivi ed emotivi di fronte ai quali egli agisce con una propria modalità personale che spesso è il frutto dell’esperienza avuta con i propri stessi genitori. Pertanto quello che la psicologia ci dice è che non dobbiamo capire solo il figlio e le sue problematiche, dobbiamo capire anche noi stessi, che cosa succede in noi quando ci rapportiamo con lui.
Pensiamo che la metodologia degli incontri di gruppo, in particolare del gruppo Balint di cui si è già parlato in un altro articolo, sia una buona risposta per affrontare queste problematiche. In questo tipo di approccio non si dice al genitore che cosa deve fare, ma si cerca di analizzare l’accaduto, quello che è successo nella relazione. Potremmo dire che secondo questo principio comprendere è più importante che spiegare, fare domande è più importante che dare risposte.
DUE PAROLE SUL METODO BALINT
Il metodo Balint nasce inizialmente per i medici di base
Come dice la parola, si tratta di metodologia di piccoli gruppi, in media 10- 12 persone, e prende il nome dal suo inventore: Michel Balint.
Nato in Ungheria alla fine dell’ottocento, Balint appartiene alla schiera dei pionieri della psicoanalisi, Fugge da Budapest, nel 1939 allo scoppio della seconda guerra mondiale per approdare in Inghilterra ed entra a far parte dello staff della Tavistock Clinic di Londra e inizio ad occuparsi della formazione dei medici di base elaborando una metodologia nota anche come “medicina centrata sul paziente.”
Balint era medico e psicoanalista e quindi non voleva perdere l’unità psicosomatica della persona, era interessato alla comprensione della personalità in tutte le situazioni di sofferenza. In particolare aveva rilevato che tra medico e paziente si instaura una relazione sbilanciata, regressiva da parte del paziente, più o meno onnipotente da parte del medico e che questa relazione risente del rapporto che queste persone hanno avuto con le figure primarie (Lampertico, 2001).
Ma per quale ragione Balint voleva approfondire in questo modo il rapporto medico paziente? Perché c’è un assunto ampiamente dimostrato in medicina e di cui si tende a trascurare l’importanza, cioè che lo stesso farmaco ha un effetto completamente diverso sul paziente a secondo del rapporto che questo paziente ha con il medico che glielo prescrive, malgrado il farmaco, il principio attivo sia esattamente lo stesso.
Balint ha creato un metodo alla relazione per i medici di base che è stato il miglior contributo che la psicoanalisi potesse dare alla medicina. si devono addestrare i medici alla relazione perché il medico è il farmaco più importante della cura. Nascono i gruppi Balint per i medici di base.
Negli anni questo metodo si è esteso ad altre figure professionali, psicologi, educatori, infermieri fino ad includere anche i genitori, cioè in tutte quelle situazioni in cui un soggetto entra in rapporto, di dipendenza, nei confronti di una figura onnipotente, che ha il compito di accudirlo di prendersi cura della persona.
LA METODOLOGIA DEL GRUPPO BALINT
Operativamente come vengono strutturati questi gruppi Balint? Il gruppo è un piccolo gruppo con un conduttore addestrato a questa metodologia, in media parliamo di 10- 12 persone. Che cosa succede in questo incontro di gruppo? Ci si mette in un cerchio, per un tempo di un tempo di un’ora e trenta circa. Nella prima fase dell’incontro di gruppo il conduttore chiede ad ogni genitore di raccontare per sommi capi di una situazione problematica accaduta con il figlio, per esempio un avvenimento che ha lasciato qualche cosa di irrisolto a livello emotivo e che il genitore vuole meglio comprendere.
Successivamente si sceglie un caso concreto di cui occuparsi. Il genitore racconta, questa volta in modo più dettagliato, l’avvenimento accaduto con il proprio figlio; questo caso concreto sarà poi oggetto di discussione da parte degli altri membri del gruppo, mentre quello che ha portato il caso sarà invitato a non prendere più la parola fino al termine della discussione.
Noi sconsigliamo l’uso di appunti scritti, può essere che chi porta il caso dimentica qualche cosa, ma questo semmai è indicativo, la memoria è selettiva e quindi a noi interessa come lui ha vissuto la situazione e non la realtà oggettiva.
A questo punto sono le persone che hanno ascoltato la vicenda, la vignetta, insomma il caso portato dal genitore, a prendere la parola e a lavorare sull’accaduto. Il conduttore dovrà mediare gli interventi, dare anche lui una lettura del caso, dovrebbe cercare di comprendere come si è mossi il gruppo di fronte al caso raccontato. Soltanto alla fine, si lascerà al genitore che ha portato il caso di raccontare come ha vissuto le letture, i rimandi che gli sono arrivati dal gruppo.
Come avrete capito quindi lo scopo degli incontri non è quello di giudicare l’operato del genitore, ne dire che cosa avrebbe dovuto fare in quel momento con il proprio figlio, ma semplicemente cercare di capire che cosa è successo fra i due soggetti, che cosa voleva il figlio e quale è stata la reazione emotiva del genitore.
Nel gruppo ogni partecipante interviene nel cercare di dare un senso all’avvenimento raccontato secondo un’ottica in cui non vi sono verità assolute ma in cui ogni membro offre la sua prospettiva, che non è né giusta ne sbagliata, ma è un pezzo di verità che contribuisce alla comprensione del caso in esame.
Nell’incontro di gruppo si crea uno spazio simbolico in cui si cerca di favorire una comunicazione per associazione libera, dove non vi sono interventi giusti o sbagliati Lo stesso Balint (2014) ha così espresso questo concetto: “…un’atmosfera intrisa di spontaneità di fronte ad un Leader non onnipotente…, in cui ognuno possa parlare senza fretta, mentre gli altri ascoltano con spirito libero e fluttuante.”
I genitori tenderanno ad identificarsi, ora con il genitore che ha portato il caso, ora il figlio inoltre si stimola la consapevolezza che i processi emotivi e affettivi che coinvolgono la relazione con il figlio disabile meritano una lettura profonda che non può essere sempre liquidata con processi di razionalizzazione.
A poco a poco, come afferma Colombini (2001) si impara a riconoscere e a capire la complessità dei fenomeni affettivi ed emotivi che coinvolgono due persone che si trovano in un rapporto sbilanciato, i genitori, con le loro esigenze educative, dall’altro i figli con i loro bisogni di attenzione, di emancipazione che creano spesso situazioni di tensioni e conflitti.
Il gruppo offre dei vantaggi rispetto all’approccio individuale, attraverso gli interventi dei vari genitori si mette in discussione il proprio approccio, anzi ci si rende conto che problemi simili possono essere affrontati in modo diverso dai vari genitori, nello stesso tempo ci si rende conto che rispetto a molte questioni è illusorio aspettarsi la risposta dell’esperto che dice “come ci si dovrebbe comportare”, quello che conta invece è aiutare a comprendere come dicevamo all’inizio.
UN ESEMPIO CLINICO
Facciamo un esempio concreto parlando di una situazione che è stata portata nel gruppo:
Qualche mese fa Abbiamo analizzato la vicenda di un genitore che racconta dei problemi del figlio che è vissuto in un orfanotrofio dell’est Europa, prima di essere stato adottato e portato dai genitori in Italia quando aveva circa 9 anni. I genitori sono molto disponibili solleciti e pazienti verso questo ragazzo, adottato malgrado fossero ben consapevoli del suo quadro clinico: una disabilità cognitiva e un disturbo dello spettro autistico. Questo ragazzo qualche settimana fa ha avuto un accesso di rabbia a scuola perché si è sentito sgridato dal professore che forse ha alzato la voce, e così ha buttato a terra il suo pc portatile e lo ha rotto. Il genitore ha cercato di giustificare con i professori la reazione di questo ragazzo che non ha saputo controllare la sua rabbia. A suo dire questa modalità di reazione sarebbe stata la conseguenza inevitabile dei tanti anni trascorsi presso istituti dove la deprivazione, la prevaricazione o la violenza addirittura, erano molto frequenti.
Circa una settimana dopo questo primo fatto, però è successo un altro episodio che il genitore racconta: “il ragazzo era a casa con il nonno, faceva le sue cose, parlava con sé stesso come spesso fa in una sorta di pensieri a voce alta, così io vedevo che trafficava, ma ho preferito non interferire non entrare nella sua cameretta, ad un certo punto lui riempie una scatola mettendo dentro delle cose e poi dà la scatola al nonno chiedendogli di buttare via tutto”.
“Io a questo punto intervengo”, racconta: – “voglio vedere che cosa vuole buttare, il ragazzo si arrabbia, ma alla fine io apro il pacco, apro questa scatola e scopro che lui aveva fatto in mille pezzi due vecchi computer portatili, uno era quello che aveva rotto a scuola che avevamo conservato perché in realtà aveva rotto soltanto lo schermo e quindi potevamo in qualche modo utilizzarlo, l’altro era quello che usava fino all’anno scorso perché poi a Natale gliene abbiamo comprato uno nuovo. Quest’ultimo invece l’ha lasciato intatto.”
A questo punto il genitore racconta di essersi arrabbiata veramente per questo gesto che il ragazzo ha fatto senza nessuna ragione, non era arrabbiato, non era successo niente, non è stato come la volta scorsa dove avrebbe potuto sentirsi provocato dal professore, perché dovevo fare in mille pezzi questi computer portatili? ”
Dopo avere raccontato questi fatti si apre la discussione fra i membri del gruppo mentre chi ha portato il caso è invitata a non intervenire fino alla fine della discussione.
Secondo alcuni il ragazzo avrebbe fatto “una provocazione”, rompendo i pc la seconda volta, per altri il suo intento era quello di “attirare l’attenzione”, la discussione poi prosegue sul fatto che secondo alcuni membri del gruppo questo comportamento vada sanzionato o perdonato.
Naturalmente queste risposte non erano sufficienti per dirci per quale diavolo di motivo questo ragazzo autistico con deficit cognitivo medio si era messo a fare una cosa del genere.
A poco a poco però abbiamo collegato i due avvenimenti come parte di un’unica vicenda e così la ragione di questo gesto ci è apparsa in tutta la sua evidenza.
“Si è capito che il ragazzo doveva essersi spaventato molto della sua rabbia, quella che aveva manifestata a scuola, e ancora di più possiamo ritenere, si è spaventato della reazione dei suoi genitori che hanno giustificato la sua reazione come la conseguenza inevitabile dei tanti anni in istituto.”
Così questo ragazzo ha rimesso in gioco questa sua manifestazione in uno spazio e in una modalità più rassicurante, nella sua cameretta, dove quasi teneramente ha voluto dimostrare a sé e al mondo che non è vero che la sua rabbia è così distruttiva e incontrollata, anzi che lui la sua rabbia la sa controllare, la sa contenere, mettendo tutto in una scatola che simbolicamente era un po’ il contenitore delle sue emozioni. Ecco questo sembra il significato di quello che ha fatto la seconda volta, una sorta di gesto catartico, dopo che la volta prima, a scuola, si era spaventato della sua reazione.
Questo caso ci sembrava emblematico perché grazie alla lettura più profonda emersa nel gruppo, possiamo capire di che cosa avrebbe avuto bisogno il ragazzo, capendo le sue problematiche e le sue paure; una risposta più incisiva la prima volta e di comprensione la seconda, esattamente il contrario di quello che è avvenuto.
Fermo restando che noi abbiamo lo scopo di comprendere più che spiegare al genitore come si dovrebbe comportare, attraverso la comprensione abbiamo creato un momento di condivisione dell’esperienza di questo genitore aiutando alla comprensione di quanto avvenuto tra i due.
Dr. Daniele Molho Psicologo -Psicoterapeuta Corbetta e Magenta
BIBLIOGRAFIA e LETTURE CONSIGLIATE
Balint M. “Medico paziente e malattia” Fioriti, Roma 2014
Colombini I “Comprendere gli adolescenti tramite il lavoro di gruppo con i genitori in: “Tra sapere e capire” pagg. 107 -116 Monti, Saronno 2021
Ferrari A. “Tra sapere e capire” Monti, Saronno 2021
Lampertico L. “Michel Balint lo psicoanalista, il formatore: “Tra sapere e capire” pagg. 27-35 Monti, Saronno 2021
Luban Plozza B., Pozzi U. “I gruppi Balint” Piccin, Padova 1986
Rusconi S. “Il rapporto medico paziente” in: “Tra sapere e capire” pagg. 15-26 Monti, Saronno 2021
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