Ad alcuni può sembrare strano che il futuro terapeuta vada lui stesso a farsi analizzare sul lettino di un collega proprio come un giorno farà con i suoi pazienti, ad altri invece può sembrare naturale che chi deve farsi carico delle problematiche altrui deve avere fatto pulizia (o almeno chiarezza) di quelli che sono i suoi conflitti, i suoi bisogni, le sue paure ecc..
In questo articolo cerchiamo di approfondire questo concetto.
Dobbiamo per prima cosa rilevare che molte scuole di psicoterapia, quelle cioè che secondo la legislazione italiana sono abilitate a rilasciare il titolo di psicoterapeuta ai candidati, medici o psicologi che siano, non prevedono che il futuro terapeuta, per essere abilitato all’esercizio della professione, debba a sua volta sottoporsi ad un trattamento analitico. Solo poche scuole di stampo analitico, rispetto alla stragrande maggioranza, richiedono che l’allievo, per potere diventare psicoterapeuta si sottoponga anche lui ad un trattamento analitico. Anzi lo psicologo, secondo questo orientamento, deve sottoporsi ad un trattamento più profondo e completo di quello riservato ai pazienti.
Noi riteniamo che la necessità di sottoporsi ad una psicoanalisi sia importante non solo per chi un domani farà una terapia del profondo, ma anche per i futuri terapeuti che seguono approcci diversi perché al di là della tecnica e della impostazione i meccanismi relazionali che entrano in gioco sono i medesimi quando ci si prende cura della sofferenza di una persona.
Quando il paziente parla dei propri conflitti è possibile che il terapeuta possa sentirsi toccato o disturbato, indipendentemente dal fatto che poi effettui una terapia del profondo o meno. Come fa un terapeuta ad entrare in contatto con le dimensioni dolorose dei suoi pazienti, se non ha prima affrontato le problematiche dentro di lui?
Nissim Momigliano, (1984) citando Bion, descrive il lavoro del terapeuta utilizzando l’immagine dell’ufficiale di guerra, che continua a pensare con chiarezza anche in mezzo alla tempesta e che questo compito può essere affrontato adeguatamente solo da chi è diventato un “feeling person”, una persona che sente, cioè che: “sa condividere l’esperienza emozionale delle turbolenze tempestose che evoca, in quanto ha avuto una vera analisi da un istituto di training”.
Ecco come Rosenfeld esprime il concetto di un terapeuta che non ha affrontato certe sue problematiche interne e che quindi ha dei blocchi che sono in relazione con le sue angosce infantili: “..se l’analista ha molte aree che possono essere etichettate come “private- vietato l’ingresso”- secondo l’efficace espressione della Heimann(1975)- l’analista e il paziente potranno stabilire una connivenza inconscia per escludere quelle aree dall’analisi, il che creerà una situazione di stallo terapeutico.”
Nella pratica clinica, come anche nelle ricerche che sono occupate di questo aspetto, è stato dimostrato che è necessario un certo livello di soddisfacimento dei propri bisogni e di benessere emotivo per potere accettare di condividere le emozioni negative degli altri. Bolognini (2002) riprende questo concetto affermando che per benessere emotivo: “..noi psicoanalisti potremmo intendere non solo e non tanto uno stato di contentezza, bensì più in generale un buon funzionamento interno; il che potrebbe voler dire che in certi casi un terapeuta addolorato o ferito per qualche verso, ma in contatto con il proprio dolore, è in grado di lavorare anche molto bene, senza un effetto distorsivo dovuto a eccessive proiezioni”.
Si possono fare innumerevoli esempi, immaginiamo il caso di uno psicoterapeuta che non ha superato i suoi problemi narcisistici e che nel suo lavoro desideri che il paziente migliori e che stia meglio per un bisogno del terapeuta stesso di sentirsi gratificato, di sentirsi bravo, insomma di accrescere la sua autostima riguardo alle sue capacità professionali. Avere un terapeuta narcisista è estremamente disturbante per il paziente ed è un fattore di insuccesso della psicoterapia in quanto crea in lui non il sentimento di essere accettato e seguito dal terapeuta, ma quello di essere usato per i bisogni del terapeuta, alimentando così il suo sentimento di solitudine.
Un altro esempio è quello del terapeuta che non ha superato determinate angosce di abbandono e che dopo un lavoro in cui ha condiviso e si è immedesimato nei problemi del suo paziente, deve accettare, anzi favorire l’esperienza del distacco, possiamo immaginare che anche questo è un momento cruciale in cui anche il terapeuta si mette in gioco.
Dott. Daniele Molho psicologo- psicoterapeuta. Magenta, Corbetta
BIBLIOGRAFIA
NISSIM MOMIGLIANO “L’Ascolto Rispettoso. Cortina Editore, 2001, Milano
BOLOGNINI STEFANO “L’empatia psicoanalitica” Bollati Boringhieri, Torino. 2002
ROSENFELD H. Impass and interpretation, Tavistock, London 1987 (Trad. It. Comunicazione e interpretazione; Bollati, boringhieri, Torino, 1989
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